(di Sandrino Marra) – La guerra in Ucraina è solo una dei circa 59 conflitti attualmente attivi nel mondo intero. Alcuni dimenticati dai media, altri mai trattati a sufficienza. In molti casi è in atto un autentico sterminio nel silenzio assoluto e nell’indifferenza totale. La zona del Karabakh resta la più militarizzata d’Europa dove solo nel 2013 l’Armenia ha superato i 400 milioni di euro per spesa militare (con meno di 3 milioni di abitanti), mentre l’Azerbaijan ben 3 miliardi (con 10 milioni di abitanti), precludendo così l’uso di tali somme per finanziare progetti di sviluppo economico e sociale, di cui entrambi i paesi necessiterebbero e non poco. Tutto ciò sotto gli occhi “distratti” della comunità internazionale e per la felicità di chi gli vende armi ed armamenti, dimenticando di fatto 30.000 morti, 85.000 feriti, 1 milione di profughi. Numeri impressionanti che mostrano con chiarezza l’ipocrisia del mondo occidentale e dell’Italia.
Il conflitto del Nagorno Karbakh è considerato un conflitto a “bassa intensità” come se un conflitto di differente intensità non facesse morti, o peggio sia meno importante perché forse diverso. Comunque sia è una guerra mai conclusa che si protrae dal 1988 con momenti di ripresa più intensi e violenti, con altri di momenti di scambio di qualche colpo di artiglieria e qualche scontro di “confine”. In teoria sarebbe uno scontro terminato 20 anni fa, ma non vi è stato mai la firma di un accordo di pace. Il Nagorno Karabakh è un fazzoletto di territorio di 4.400 chilometri quadrati grande quanto metà della Sardegna, con 150.000 abitanti, situato nel Caucaso ed incassato tra l’Armenia e l’Azerbaijan (ambedue ex Repubbliche Sovietiche).
Il nazionalismo è alla base di questa guerra. Le ragioni etniche risalgono a ben prima dell’Unione Sovietica ed hanno radici nell’eccidio degli Armeni di oltre 100 anni fa. Gli Armeni sono Cristiani, gli Azeri Musulmani Sciiti. Già dal 1923, anno dell’annessione, la popolazione del Nagorno Karabakh non ha mai accettato di essere parte dell’Azerbaijan sperando sempre di tornare a casa nell’Armenia creata dopo il genocidio del 1915 ed il crollo dell’impero ottomano. Così nel 1988 gli abitanti del Karabakh dichiararono l’indipendenza sperando di unirsi alla neonata nazione dell’Armenia appena staccatasi dall’URSS. Ma ne derivò il conflitto costato fino ad oggi 30.000 morti ed un milione di profughi, in maggioranza azeri.
Gli azeri sono di etnia turca, gli armeni si sentono europei ed ancora hanno rancori con i turchi per il genocidio del 1915, così accade che l’Azerbaijan sia amico della Turchia mentre l’Armenia è alleata della Russia che a sua volta vende armi ed armamenti ad ambedue i contendenti. Così il Nagorno Karabakh conteso dall’Azerbaijan musulmano e dall’Armenia cristiana aspetta da ben oltre 20 anni un responso della comunità internazionale, ONU compresa, che metta termine alla sua controversa situazione. Ma sembra che il conflitto non sia sufficientemente interessante per i paesi occidentali.
La guerra dei 44 giorni
Gli attriti si sono acuiti a Settembre del 2020 con l’inizio di una violenta escalation che in 44 giorni ha fatto 3000 vittime tra i militari Armeni e 2800 tra gli Azeri (quasi tutti coscritti tra i 18 ed i 20 anni, mentre sconosciuto è il numero delle vittime civili) con una tregua e la resa delle forze armene. L’accordo di fatto dichiara vincitore l’Azerbaijan che riprende territori persi nel 1993, contemporaneamente l’Armenia non perde troppo riuscendo ad ottenere delle concessioni che la collegano alla capitale del Nagorno Karabakh. Ma di fatto resta una cocente realtà, ovvero che in ben 30 anni non si è giunti in pratica a nulla, che questo conflitto congelato nel tempo non ha interessato la comunità internazionale per un tempo lunghissimo, tantomeno oggi. La zona del Karabakh resta la più militarizzata d’Europa dove solo nel 2013 l’Armenia ha superato i 400 milioni di euro per spesa militare (con meno di 3 milioni di abitanti), mentre l’Azerbaijan ben 3 miliardi (con 10 milioni di abitanti), precludendo così l’uso di tali somme per finanziare progetti di sviluppo economico e sociale, di cui entrambi i paesi necessiterebbero e non poco. Tutto ciò sotto gli occhi “distratti” della comunità internazionale e per la felicità di chi gli vende armi ed armamenti, dimenticando di fatto 30.000 morti, 85.000 feriti, 1 milione di profughi.
LA PRECISAZIONE di
Elvin Ashrafzade, Primo Segretario dell’Ambasciata della Repubblica dell’Azerbaigian nella Repubblica Italiana
Come l’autore giustamente sottolinea, non tutte le guerre ottengono la stessa eco mediatica e la stessa solidarietà internazionale. Questo l’Azerbaigian lo sa bene, in quanto è stato paese vittima, per quasi tre decenni, dell’occupazione militare da parte delle forze armate dell’Armenia di circa il 20% del suo territorio internazionalmente riconosciuto – la regione del Karabakh con altri distretti adiacenti, e ha subito una pulizia etnica contro tutti gli azerbaigiani, storicamente residenti in quei territori. A differenza da quanto espresso dall’autore, il conflitto tra Armenia ed Azerbaigian non aveva nulla a che fare con la religione: l’Azerbaigian è un paese multietnico e multiconfessionale, in cui popolazioni di origini e religioni diverse convivono pacificamente da secoli, tanto che il modello azerbaigiano di multiculturalismo è preso da esempio a livello internazionale. Si trattava di un conflitto territoriale, motivato da rivendicazioni territoriali contro l’Azerbaigian da parte dell’Armenia, che, con l’uso della forza, ha mantenuto sotto occupazione illegale i territori dell’Azerbaigian, con l’obiettivo di annetterli.
Ma ciò che ancor di più sorprende è che forse l’autore ignora che il conflitto ha trovato una conclusione nel novembre 2020, dopo 44 giorni di guerra patriottica, in cui l’Azerbaigian ha ripristinato la sua integrità territoriale, liberando i territori che erano sotto occupazione e portando all’implementazione della documentazione internazionale, tra cui le quattro risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che erano rimaste ignorate dall’Armenia per circa 30 anni. Ora abbiamo voltato pagina, permettendo di avviare una normalizzazione dell’area e di poter programmare per il futuro il ritorno a casa di circa 1 milione di profughi interni azerbaigiani. I territori liberati sono stati trovati in uno stato di profonda distruzione commessa dall’Armenia durante gli anni di occupazione: rasi al suolo e oltraggiati i nostri monumenti, così come gli edifici pubblici e civili. Vastissima la presenza di mine, disseminate dalle forze dell’Armenia, e che ancora continuano ad uccidere civili innocenti. Ma ciò nonostante, i lavori di ricostruzione procedono poderosi, grazie all’amore che l’Azerbaigian ha per queste terre. E’ di questi giorni la notizia che l’Armenia ha accettato i cinque principi, proposti dall’Azerbaigian, che prevedono una reale pacificazione, attraverso la firma di un trattato di pace e con la delimitazione dei confini di stato e l’apertura delle vie di comunicazione. Purtroppo assistiamo senza sosta a come in Armenia ci sia chi cerca di ostacolare il processo di pace, con azioni di revanscismo e provocazioni continue. Le forze che sottostanno a tali azioni o non vogliono comprendere che è emersa una nuova realtà post conflitto nell’area, da cui l’Armenia stessa potrebbe beneficiare, oppure è nel loro interesse che l’Armenia rimanga un paese instabile, povero, emarginato e tagliato fuori da tutti i progetti regionali. Sfortunatamente, articoli di questo genere, rischiano di essere inconsapevolmente complici delle azioni di disinformazione che provengono dalle forze sopra citate, quando invece a tutta la comunità internazionale sarebbe utile che non si risparmiassero le forze nel garantire in quella regione, estremamente strategica in particolare anche per l’Italia, stabilità e pace, che passa innanzi tutto dalla normalizzazione dei rapporti tra Azerbaigian e Armenia. Crediamo che sia compito della stampa osservare e raccontare i processi positivi in corso nella regione, permettendo ai lettori di conoscere la reale situazione e la verità su quanto sta accadendo.
LA NOTA DELLA REDAZIONE (a cura di Sandrino Marra)
Gentile Primo Segretario innanzitutto la ringrazio per l’osservazione all’articolo a mia firma “Solidarietà a due facce- Il Nagorno Karabakh in guerra da 24 anni: 30.000 morti e 1 milione di profughi. Nell’indifferenza mondiale”.
Articolo che come lei precisa sottolinea l’empasse lungo 30 anni della comunità internazionale, in un contesto che nel tempo si è espresso, proprio per la mancanza di attenzione della comunità, in un numero impressionante di profughi, di vittime e di danni ed aggiungo ad incrementi di spesa militare che purtroppo necessitano ed hanno necessitato (così come in molteplici altre situazioni nel mondo) in un ambito di difesa che tolgono o riducono la crescita di un paese. Pensiamo se non ci fosse stato tale conflitto o sarebbe giunto 30 anni fa alle dovute e legittime conclusioni con il serio aiuto dell’ONU, quanto miglioramento sarebbe giunto al suo paese il poter investire le spese militari in spese sociali e infrastrutturali. Ogni paese in conflitto o che ha vissuto un conflitto, ripeto purtroppo, per forza maggiore è costretto a spostare ingenti somme nella difesa togliendo le stesse da altro che ne favorirebbe crescita ed economia. E’ stato sempre così, forse ci vorranno decenni ancora prima di vedere un mondo incline all’eguaglianza, all’inclusione, all’interesse comune per una vita migliore, per un mondo migliore. Nella parte finale del mio articolo in rilievo con il sottotitolo “la guerra dei 44 giorni” parlo dell’ultima fase dell’ultradecennale conflitto iniziato nel Settembre 2020 conclusasi come sappiamo dopo 44 giorni, ovvero a Novembre dello stesso anno (accenno anche e forse con anticipo, anche se a grandi linee, i principi di accordo che lei mi conferma accettati in questi giorni) “con una tregua e la resa delle forze armene” e “…l’Azerbaigian che riprende territori persi nel 1993”. So fin troppo bene non solo per istruzione e formazione ma soprattutto per aver partecipato a diverse missioni umanitarie in paesi post conflitto, come un luogo, un territorio può essere devastato e reso anche pericoloso per le popolazioni dalla presenza di ordigni, mine in primis. Nel mio articolo si sottolinea l’etnicità delle popolazioni, non con il fine religioso ma bensì culturale e di radice culturale che sono alla base dell’essere umano, “sappiamo chi siamo conoscendo le nostre radici, sappiamo dove andremo perché conosciamo le nostre radici” ovvero abbiamo bisogno e l’uomo ha sempre bisogno, di sapere da dove viene e chi è per potersi relazionare e vivere in armonia con i propri simili. Spesso è la mancanza di ciò, di tale sapere e conoscenza a spingere gli uomini a volere, pretendere e togliere ad altri, quando nella realtà ognuno di noi porta in se una parte di un altro, un pezzettino della cultura dell’altro, poiché l’uomo è fatto di cultura. Forse potrebbe nel mio scrivere apparire poco comprensibile la definizione di nazionalismo, ma per questa definizione si intende nello specifico dell’articolo il nazionalismo inteso come nazione, confini, realtà istituzionale intesa come Stato e nell’articolo si specifica come gli Armeni aspiravano a tornare a casa in Armenia sperando con la dichiarazione di indipendenza del Karabakh di riunirsi all’Armenia stessa, dunque un nazionalismo etnico nella più reale definizione linguistica che di fatto ha creato il conflitto, staccandosi dal territorio Azerbaigiano quando poteva viverci in pace ed armonia come accadeva da almeno un millennio. Il nostro fine in merito a questa tipologia di articoli (è il secondo con definizione iniziale “Solidarietà a due facce”) è il mettere in risalto come la diplomazia internazionale e gli organi preposti come l’ONU, quando non seguono e non attenzionano costantemente le situazioni e non mettono carattere e serio lavoro diplomatico nelle azioni stesse e nell’impegno in una visione di salvaguardia dei diritti umanitari e del diritto di Stato, divengono responsabili del peggioramento degli eventi con le conseguenze che ben ha descritto nella sua lettera . Il nostro compito in questa tipologia di articoli che stiamo sviluppando da qualche tempo (legga anche all’interno della testata gli articoli della Rubrica Mondo invisibile) è sensibilizzare e acculturare il lettore oltre che renderlo conoscitore del disastro umanitario che ogni conflitto porta con se. La morte dei civili, degli innocenti, i danni architettonici, ambientali ma soprattutto sociali e di crescita di un luogo, di un paese sono l’elemento di sensibilizzazione affinchè il lettore possa poi porsi delle domande, informarsi e comprendere gli eventi attraverso una strada che li guidi alla comprensione. Il nostro compito dunque è sensibilizzare nello specifico della rubrica messa in campo, poi attraverso ciò il lettore sarà in grado anche di osservare e conoscere i processi positivi in corso non solo nella sua regione ma ovunque la positività di una pace e di accordi strutturati porta. Non dubiti, i nostri articoli sistematicamente portano sulla strada che lei ha indicato in fondo alla sua lettera ovvero la conoscenza delle realtà e delle situazioni su quanto accade, quando la pace, l’unità e la bontà degli intenti giunge al suo apice come nel suo paese, il revanscismo e le provocazioni non hanno spazio quando forte è la volontà di pace e benessere. Vorrei concludere con una frase del Mahatma Ghandi che le dedico poiché intuisco nel suo scrivere una ferrea volontà di pace e stabilità nella più pura formazione diplomatica che contraddistingue gli uomini e le donne che intraprendono la pur non semplice strada della diplomazia: “Occhio per occhio servirà solo a rendere cieco tutto il mondo. Non importa dove viviamo, quale religione professiamo o qual è la cultura che coltiviamo: al centro di tutto siamo tutti esseri umani.”