Ultim'ora
foto repertorio

Caiazzo – Guerra fra supermercati, i giudici del consiglio di stato respingono il ricorso della Iper Voltruno

Caiazzo – Nuova sentenza nell’ambito dell’infinito processo fra due supermercati del paese. Questa volta sono i giudici del consiglio di Stato a sentenziare sul ricorso presentato dalla Iper Volturno. I giudici hanno respinto il ricorso proposto dal Lauretta Fazzone, che chiedeva la rievocazione della sentenza della Quarta Sezione del Consiglio di Stato n. 255 del 17 gennaio 2018, pronunciata all’esito del giudizio contraddistinto con R.G. n. 8914/2012.

ECCO LA SENTENZA DEL CONSIGLIO DI STATO

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5340 del 2018, proposto dalla signora Lauretta Fazzone, rappresentata e difesa dall’avvocato Andrea Abbamonte, presso il cui studio domicilia in Roma, via degli Avignonesi, n. 5;

contro

la Società Golden Market S.r.l., il Comune di Caiazzo, la Regione Campania e la Asl di Caserta, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., non costituiti in giudizio;

nei confronti

la signora Concetta Parisi, in proprio e quale socio nonché legale rappresentante della società New Golden Market S.r.l., rappresentata e difesa dall’avvocato Maurizio Ricciardi Federico, con domicilio eletto presso la Segreteria del Consiglio di Stato, in Roma, Piazza Capo di Ferro, n. 13;
il signor Antonino Iacoessa, in proprio e quale socio della società New Golden Market s.r.l., rappresentato e difeso dall’avvocato Maurizio Ricciardi Federico, con domicilio eletto presso la Segreteria del Consiglio di Stato, in Roma, Piazza Capo di Ferro, n. 13;
sul ricorso numero di registro generale 2257 del 2018, proposto dalla Iper Volturno S.r.l., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’avvocato Andrea Abbamonte, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via degli Avignonesi, n. 5;

contro

la Societa’ Golden Market S.r.l., il Comune di Caiazzo, la Regione Campania, la Asl di Caserta e la Multicedi s.r.l.,

nei confronti

la signora Concetta Parisi, in proprio e quale socio della società Golden Market 2 S.r.l., rappresentata e difesa dall’avvocato Maurizio Ricciardi Federico, con domicilio eletto presso la Segreteria del Consiglio di Stato, in Roma, Piazza Capo di Ferro, n. 13;
il signor Antonino Iacoessa, in proprio e quale socio e legale rappresentante della società Golden Market 2 s.r.l., rappresentato e difeso dall’avvocato Maurizio Ricciardi Federico, con domicilio eletto presso la Segreteria del Consiglio di Stato, in Roma, Piazza Capo di Ferro, n. 13;

e con l’intervento di

ad adiuvandum:
dei signori Girolamo Accurso, Maria Barbiero, Teresa Lucia Casella, Gaetano Chichierchia, Giuseppina Chichierchia, Ioan Lucian Ciubuca, Gloria Laura D’Agostino, Anna Ferradino, Daniele Inutile, Carmela Mastroianni, Anna Minasi, Stefano Perrone, Angela Piccirillo, Jessica Raucci, Luisa Riccio, Angelina Russo, Anna Santabarbara, Vincenzo Savinelli, Antonio Visca, rappresentati e difesi dall’avvocato Pasquale Marotta, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Giancarlo Caracuzzo in Roma, via di Villa Pepoli, n. 4;

per la revocazione

quanto ad entrambi i ricorsi:

della sentenza della Quarta Sezione del Consiglio di Stato n. 255 del 17 gennaio 2018, pronunciata all’esito del giudizio contraddistinto con R.G. n. 8914/2012.

Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dei signori Concetta Parisi ed Antonino Iacoessa in entrambi i ricorsi;

Visto l’intervento ad adiuvandum descritto in epigrafe nel ricorso R.G. n. 2257 del 2018;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 7 marzo 2019 il Cons. Roberto Caponigro e uditi per le parti gli avvocati Andrea Abbamonte e Federico Maurizio Ricciardi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

  1. La Quarta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza 17 gennaio 2018 n. 255, ha accolto, nei limiti e nei sensi di cui in motivazione, l’appello proposto dalla società Golden Market s.r.l. e, per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, ha accolto il ricorso introduttivo del giudizio ed ha annullato gli atti con lo stesso impugnati, vale a dire l’autorizzazione per media struttura di vendita (autorizzazione commerciale n. 1 del 26 maggio 2011) e, quali atti presupposti, le concessioni edilizie rilasciate in favore Iper Volturno s.r.l.

La Iper Volturno s.r.l. e la signora Lauretta Fazzone, proprietaria dell’immobile, hanno autonomamente proposto ricorso per revocazione della detta sentenza, articolando le seguenti identiche doglianze:

– l’impianto motivazionale e la conseguente decisione della sentenza revocanda sarebbe la conseguenza di una “svista”, e cioè di una errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, decisiva ai fini della decisione;

– il Collegio, in particolare, non avrebbe letto il decreto del Sindaco di Caiazzo del 30 settembre 1987 (contenuto nel fascicolo di primo grado), circostanza rilevante in quanto l’accertamento della validità ed efficacia del p.i.p. avrebbe assunto il ruolo chiave nella vicenda, pur non essendo il fulcro delle argomentazioni difensive;

– il decreto del Sindaco di Caiazzo del 30 settembre 1987 ha disposto che il Piano per insediamento produttivo (p.i.p.), deliberato dal Consiglio comunale con atto n. 184 del 30 settembre 1981, reso esecutivo dal Co.Re.Co. di Caserta con provvedimento n. 15976 del 14 novembre 1981, è approvato, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 219 del 1981 per silenzio della Giunta Regionale nei 90 giorni dall’invio del Piano stesso;

– il p.i.p., pertanto, è stato evidentemente adottato ai sensi del richiamato art. 28 della legge n. 219 del 1981, per cui dovrebbe intendersi approvato sin dalla data del 7 marzo 1982 o, al più tardi, dalla data del 12 settembre 1982, per effetto del silenzio assenso, mentre la sentenza oggetto di ricorso per revocazione ha considerato il p.i.p. approvato il 30 settembre 1987 ed ha attribuito al p.i.p. efficacia decennale;

– il certificato di destinazione urbanistica rilasciato dal Comune e versato in atti in cui risulta che ancora oggi l’area ricade in zona agricola E/2, pertanto, non avrebbe alcun valore preminente o derogatorio rispetto alla legge ed agli effetti dalla stessa prodotti;

– se il Collegio avesse letto le dette circostanze emergenti dai documenti in atti e avesse valutato correttamente il valore giuridico degli stessi, avrebbe senz’altro rilevato la sussistenza del requisito formale della destinazione urbanistica commerciale dell’area all’epoca della concessione edilizia per la realizzazione dei fabbricati;

– il Collegio ha ritenuto che il p.i.p. fosse stato adottato ai sensi dell’art. 27 della legge n. 865 del 1971 ed ha attribuito allo stesso una durata decennale, laddove, invece, sarebbe stato adottato e approvato ai sensi della legge speciale e derogatoria n. 219 del 1981 e, secondo la normativa di riferimento, non avrebbe alcun vincolo decennale;

– il limite dei dieci anni, ad ogni buon conto, sarebbe previsto solo ed unicamente ai fini espropriativi, restando operanti senza limiti temporali le prescrizioni urbanistiche previste dal piano;

– nella sentenza revocanda si rileverebbe che l’immobile ricade in zona agricola semplice E/2 e, pertanto, a norma degli artt. 23 e 24 delle NTA allegate al p.d.f., le uniche destinazioni d’uso consentite sono la residenza e gli impianti occorrenti per la conduzione dei fondi agricoli, mentre il richiamato art. 24 delle NTA, al punto 4, prevede espressamente la possibilità di realizzare anche “costruzioni destinate all’industria e cave, indice di edificabilità fondiaria 0,15 mq/mq altezza massima 8,00 metri”;

– nel 1983 la Autovolturno s.p.a. ha chiesto di spostare la propria attività commerciale dai locali di via Roma a quelli (nuovi) di S.S. 158 e il Sindaco, in data 24 maggio 1983, ha autorizzato l’abitabilità e l’usabilità dello stabile in questione ove era espressamente prevista l’attività commerciale e di vendita al minuto, ma tale autorizzazione non sarebbe stata valutata dal Collegio giudicante ed avrebbe influenzato la decisione;

– la sentenza afferma che la Autovolturno s.p.a. era beneficiaria di autorizzazione commerciale per i locali siti in via Roma, ma tale circostanza sarebbe smentita dall’autorizzazione n. 162 del 23 gennaio 1981, che riporta un’addenda in cui vi è l’aggiornamento della licenza proprio in forza dello spostamento dell’attività commerciale presso i nuovi locali siti in SS 158; il documento sarebbe stato rinvenuto solo successivamente al deposito della sentenza presso gli archivi del Comune per cui, trattandosi di un documento decisivo, si concretizzerebbe l’ipotesi di cui all’art. 395, comma 3, c.p.c.;

– nelle more del processo d’appello, in data 19 marzo 2013, la Golden Market s.r.l. è stata cancellata dal registro delle imprese e ciò rappresenterebbe ex se un evento interruttivo del giudizio; inoltre, la Golden Market s.r.l., in liquidazione, ha provveduto a vendere l’azienda a due distinte società che sono rimaste estranee al giudizio, sicché sarebbe sopravvenuta una carenza di interesse al ricorso con conseguente improcedibilità dello stesso.

I signori Concetta Parisi ed Antonino Iacoessa, in rito, hanno eccepito l’improcedibilità dei ricorsi per revocazione per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto, sulla scorta del condono edilizio n. 48 del 2 agosto 2018, il Comune di Caiazzo ha rilasciato in favore della neocostituita Ipervolturno II s.r.l. una nuova autorizzazione commerciale per media struttura di vendita, registrata al n. 1 del 10 agosto 2018, sicché sarebbe sopravvenuta la carenza di interesse nei confronti della signora Fazzone, la quale, proprietaria dell’immobile, ha chiesto ed ottenuto la sanatoria, nonché nei confronti della Ipervolturno s.r.l., all’epoca comodataria/locatrice dell’immobile, anch’essa destinataria dell’ordine di demolizione, atteso che a tale società è subentrata la nuova società Ipervolturno II s.r.l.

Le parti hanno depositato altre memorie a sostegno ed illustrazione delle rispettive ragioni.

All’udienza pubblica del 7 marzo 2019, le cause sono state trattenute per la decisione.

  1. Il Collegio, considerato che i ricorsi per revocazione sono stati proposti avverso la medesima sentenza di questa Sezione n. 225 del 2018, dispone, ai sensi dell’art. 96 c.p.a., la riunione dei relativi giudizi.
  2. I ricorsi, dall’identico contenuto, sono inammissibili e ciò esonera il Collegio dalla delibazione dell’eccezione di improcedibilità sollevata dai signori Concetta Parisi ed Antonino Iacoessa.
  3. Non sussistono i presupposti di cui all’art. 395, n. 4, c.p.c., secondo cui la sentenza pronunciata in grado di appello può essere impugnata per revocazione se “è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa”. La disposizione sancisce che “vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”.

La giurisprudenza amministrativa ha già esposto i presupposti perché possa rinvenirsi l’errore di fatto “revocatorio”, distinguendolo dall’errore di diritto che, come tale, non dà luogo ad esito positivo della fase rescindente del giudizio di revocazione (ex multis, tra le pronunce più recenti di questa Sezione: 6 dicembre 2018, n. 6914; 7 novembre 2018, n. 6280; 5 novembre 2018, n. 624; 4 gennaio 2018, n. 35; 2 novembre 2016, n. 4586; 28 giugno 2016, n. 2883, 17 febbraio 2015, n. 961; 8 gennaio 2013, n. 4).

In particolare, occorre considerare che l’istituto della revocazione è un rimedio eccezionale, che non può convertirsi in un terzo grado di giudizio, per cui, come d’altra parte sancito dalla stessa lettera dell’art. 395, quarto comma, c.p.c., non sussiste il vizio revocatorio se la dedotta erronea percezione degli atti di causa – che si sostanzia nella supposizione dell’esistenza di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, ovvero nella supposizione dell’inesistenza di un fatto, la cui verità è positivamente stabilita – ha costituito un punto controverso e, comunque, ha formato oggetto di decisione nella sentenza revocanda, ossia è il frutto dell’apprezzamento, della valutazione e dell’interpretazione delle risultanze processuali da parte del giudice.

Pertanto, sono vizi logici e quindi errori di diritto quelli consistenti nella dedotta erronea interpretazione e valutazione dei fatti o nel mancato approfondimento di una circostanza risolutiva ai fini della decisione (ex multis: Cons. Stato, III, 24 ottobre 2018, n. 6061; Cons. Stato, IV, 12 settembre 2018, n. 5347; Cons. Stato, IV, 4 gennaio 2018, n. 35; Cons. Stato, V, 21 ottobre 2010, n. 7599).

L’errore di fatto revocatorio, invece, si configura come un abbaglio dei sensi, per effetto del quale si determina un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa.

Insomma, l’errore di fatto, idoneo a costituire il vizio revocatorio previsto dall’art. 395 n. 4 c.p.c., deve consistere in un travisamento di fatto costitutivo di “quell’abbaglio dei sensi” che cade su un punto decisivo ma non espressamente controverso della causa.

4.1. Nel caso di specie, un “abbaglio dei sensi” non è individuabile.

La sentenza oggetto del presente ricorso ha statuito che:

“11.4.7. Dai documenti versati agli atti del giudizio e, in particolare, dal certificato di destinazione urbanistica prot. n. 7910 del 5 luglio 2011, è provato che l’immobile per cui è causa, distinto in catasto al foglio 12, part. 136, sub 3 e realizzato in forza della concessione edilizia n. 2/9 del 23 agosto 1979 per “costruzione di officina e attività annesse per concessionari d’auto” e successiva concessione edilizia in variante n. 1/118 del 5 febbraio 1982, ricade (e ricadeva, anche all’epoca) in zona E2 (agricola semplice) del vigente programma di fabbricazione adottato in data 27 maggio 1974 con decreto n. 729 del Presidente della G.R.C. e successiva deliberazione di G.R. n. 9304 del 29 dicembre 1975. A norma degli artt. 23 e 24 delle NTA allegate al p.d.f. le uniche destinazioni d’uso consentite sono la residenza e gli impianti occorrenti per la conduzione dei fondi agricoli, secondo l’indice di fabbricabilità fondiaria pari a 0,03 mc/mq. È opportuno, inoltre, apprezzare, in punto di fatto, che la società Autovolturno era sì beneficiaria di una autorizzazione al commercio di vendita al dettaglio di autovetture (autorizzazione n. 116 del 18.6.1975), ma in tutt’altro immobile (quello alla via Roma) rispetto a quello di cui alle sopramenzionate concessioni.

11.4.8. Replicano, a questo punto, le parti appellate, che l’area in cui ricade l’immobile è stata inserita nel piano per gli insediamenti produttivi (cd. p.i.p.) ai sensi dell’art. 28 della legge 14 maggio 1981, n. 219, in forza della delibera consiliare n. 184 del 30 settembre 1981, resa esecutiva dal Co.Re.Co. di Caserta con prot. n. 15976 del 14 novembre 1981, sicché la stessa avrebbe acquisito destinazione commerciale.

11.4.9. L’assunto è privo di pregio.

11.4.10. Come correttamente osservato dall’appellante (cui non è seguita alcuna pertinente e decisiva controreplica), il p.i.p. è stato approvato solo con il decreto sindacale del 30 settembre 1987, di talché anche la concessione per l’innanzi rilasciata (quella del 1982) risulta priva della necessaria conformità urbanistica secondo la destinazione commerciale, all’epoca non ancora attuale. L’anzidetto piano, inoltre, è decaduto per mancata attuazione antro il termine del 30 settembre 1997, sicché anche i titoli edilizi successivamente rilasciati per ristrutturazione di locali commerciali e realizzazione di locali tecnici (il permesso di costruire n. 33/2007; e i permessi in variante n. 100/2009 e n. 58/2010) risultano non conformi alla vigente destinazione urbanistica (ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 2 dicembre 2011, n. 6363: “Il piano per gli insediamenti produttivi (p.i.p.) previsto dall’art. 27 l. n. 865 del 1971 è uno strumento urbanistico di natura attuativa, dotato di efficacia decennale dalla data di approvazione ed avente valore di piano particolareggiato di esecuzione, la cui funzione è quella di incentivare le imprese, offrendo ad un prezzo politico le aree occorrenti per il loro impianto ed espansione: come tale, trascorsi i dieci anni, l’amministrazione non può disporre alcuna proroga dello stesso, potendo invece unicamente valutare l’opportunità di predisporre un nuovo strumento con conseguente rinnovazione della scelta pianificatoria attuativa rimasta inattuata”).

11.4.11. L’area in questione, inoltre, non sarebbe – nemmeno all’attualità – interessata da alcuna pianificazione integrativa tramite S.I.A.D., giacché quest’ultimo, sia pure approvato con delibere di consiglio comunale n. 24 del 12 giugno 2001, n. 32 del 30 luglio 2001 e n. 52 del 28 dicembre 2001, in esecuzione delle previsioni di cui al decreto legislativo n. 114/1998 e alla legge regionale n. 1/2000, è decaduto poiché adottato quale strumento di variante rispetto a un p.r.g. solo adottato (delibera n. 3 del 12 ottobre 1999) ma non approvato.

Il riferimento al S.I.A.D., ovviamente, nello specifico contesto per cui è causa, va apprezzato unicamente allo scopo di rinvenire una modificazione della vigente strumentazione urbanistica in senso favorevole alla controinteressata Iper Volturno (circostanza, questa, che per quanto appena detto, va decisamente respinta), e non già nel senso di ritenere l’adozione del detto strumento di pianificazione integrativa come necessaria al fine di autorizzare la licenza all’esercizio del commercio. Come già pacificamente osservato dalla giurisprudenza amministrativa, infatti, la legge regionale Campania n. 1 del 2000 non contiene alcuna preclusione circa la possibilità di rilasciare autorizzazioni commerciali per medie strutture di vendita a prescindere da quanto previsto dal S.I.A.D. e, pertanto, anche a prescindere dall’emanazione del S.I.A.D. stesso.

11.4.12. Ciò premesso e considerato, pertanto, a nulla varrebbe opporre – come invece preteso dalle parti appellate – l’asserita destinazione commerciale assunta dall’immobile in virtù del rilascio dei menzionati titoli edilizi e del decorso di un ampio lasso di tempo, giacché – secondo i principi generali costantemente ribaditi da questo Consiglio – la disciplina di ciascuna area deve trarsi unicamente dalle disposizioni degli strumenti urbanistici che specificamente la riguardano, restando irrilevanti sia l’eventuale rilascio di titoli illegittimi che l’uso di fatto svolto nell’immobile.

In tal senso, nemmeno un certificato di destinazione urbanistica potrebbe in astratto attestare, in quanto atto meramente dichiarativo, la sussistenza di una destinazione in contrasto con quella documentalmente risultante dai detti strumenti (Consiglio di Stato, sez. IV, 8 febbraio 2016 n. 476). A tacer d’altro, in ogni caso, nella fattispecie all’esame, come risulta dalle produzioni documentali in atti, il comune di Caiazzo ha, anzi, rilasciato svariati certificati urbanistici in cui si dichiara pacificamente che l’immobile per cui è causa ricade in zona classificata E2 Agricola semplice.

Si appalesa, pertanto, sotto questo punto di vista, del tutto erroneo (oltre che del tutto inconferente) il richiamo, operato da entrambe le parti appellate, alla sentenza n. 7447 resa da questo Consiglio di Stato, Sezione IV, in data 26 novembre 2009, sentenza in cui le parti stesse hanno (evidentemente) voluto leggere una conferma alla tesi della incontestabilità dei titoli edilizi approvati da anni e a suo tempo non impugnati.

Tale sentenza, infatti, non può rivestire alcun valore di precedente rispetto al caso all’esame, giacché essa riguarda una fattispecie caratterizzata, in punto di fatto, dall’attribuzione, ad opera dello strumento urbanistico, di una classificazione di zona D3 “Attrezzature commerciali esistenti”, cui le allegate NTA applicano una destinazione d’uso ad esercizi di vicinato ed a medie strutture di vendita. In quel caso, il comune aveva, in effetti, assentito lavori edilizi su edificio già esistente e già fornito di vocazione commerciale, ubicato in area ove la corrente regolamentazione urbanistica ammetteva la possibilità di ampliare esercizi preesistenti. Entro queste coordinate, pertanto, era chiaro che la ricorrente non avrebbe potuto dolersi della destinazione commerciale, impressa al fabbricato e alla zona che ospitavano l’esercizio avversato, da atti e disposizioni approvati da anni, a suo tempo non impugnati e perciò da ritenersi incontestabili.

Nel caso all’esame, invece, a difettare è proprio il requisito formale della destinazione commerciale urbanistica, sicché ben può dolersene, oggi, l’odierna ricorrente, essendo divenuto attuale il suo interesse solo a seguito dell’interferenza, nel proprio bacino di utenza, della nuova attività commerciale svolta dalla controinteressata.

11.4.13. E il discorso potrebbe (e dovrebbe), al limite, essere condotto anche sul piano dell’autotutela amministrativa, nella sussistenza degli ulteriori requisiti previsti dalla legge, giacché nessuna rilevanza giuridica può assumere il preteso mutamento della destinazione per evoluzione, ad essa contraria, della situazione fattuale impressa all’area in virtù del rilascio di titoli edilizi. Tale tesi, infatti, comporterebbe la (inaccoglibile) abrogazione tacita delle previsioni pianificatorie.

Come rilevato da questo Consiglio di Stato in caso analogo “È appena il caso di ribadire, infatti, il consolidato orientamento della giurisprudenza, secondo cui la circostanza che in passato siano state perpetrate eventuali irregolarità non inficia l’attività repressiva ma, semmai, può costituire impulso per la intensificazione della attività repressiva; le previsioni di piano non possono essere disattese “de facto” perché ciò implicherebbe l’abdicazione sostanziale dall’indispensabile attività programmatoria dell’ordinato sviluppo territoriale” (Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 4 aprile 2012, n. 1986).

  1. Analoga favorevole sorte non incontra, invece, il terzo motivo di appello, basato sui due alternativi profili della mancanza del SIAD e del (preteso) rilascio dell’autorizzazione commerciale per una superficie di vendita (1000 mq) superiore a quella normativamente prevista (900 mq).

12.1. Quanto al primo profilo, è stato già ampiamente detto sopra al punto 11.4.11, alle cui motivazioni ci si riporta per esigenze di economia processuale, restando inteso che l’adozione del detto piano integrativo è irrilevante ai fini della legittimità del rilascio dell’autorizzazione di commercio.

12.2. In relazione, invece, al secondo aspetto, va osservato che l’autorizzazione è stata circoscritta, quanto all’ambito oggettivo di efficacia, entro il limite legalmente previsto (900 mq), sicché eventuali discrasie rispetto all’istanza presentata dalla parte o alle risultanze del certificato di prevenzione incendi, ovvero ipotetici abusi del titolo abilitativo legittimamente rilasciato, perpetrati in via di mero fatto, possono (e devono) trovare soluzione secondo gli strumenti di tutela accordati dall’ordinamento, ma non già attraverso la caducazione del titolo medesimo.

  1. Conclusivamente e in sintesi, dunque, vanno accolti il primo e il secondo motivo di appello e respinto il terzo”.

4.2. La prospettazione delle parti ricorrenti – secondo cui l’impianto motivazionale e la conseguente decisione della sentenza revocanda sarebbe la conseguenza di una “svista”, e cioè di una errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, decisiva ai fini della decisione – non può essere condivisa.

4.2.1. Con una prima serie di doglianze, è stato dedotto che il Collegio non avrebbe letto il decreto del Sindaco di Caiazzo del 30 settembre 1987 (contenuto nel fascicolo di primo grado), circostanza rilevante in quanto l’accertamento della validità ed efficacia del piano per insediamenti produttivi (p.i.p.) avrebbe assunto il ruolo chiave nella vicenda, pur non essendo il fulcro delle argomentazioni difensive.

In particolare, il decreto del Sindaco di Caiazzo del 30 settembre 1987 ha disposto che il p.i.p., deliberato dal Consiglio comunale con atto n. 184 del 30 settembre 1981, reso esecutivo dal Co.Re.Co. di Caserta con provvedimento n. 15976 del 14 novembre 1981, è approvato, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 219 del 1981 per silenzio della Giunta Regionale nei 90 giorni dall’invio del Piano stesso, per cui dovrebbe intendersi approvato sin dalla data del 7 marzo 1982 o, al più tardi, dalla data del 12 settembre 1982, per effetto del silenzio assenso, mentre la sentenza oggetto di ricorso per revocazione ha considerato il p.i.p. approvato il 30 settembre 1987 ed ha attribuito al p.i.p. efficacia decennale.

La dedotta circostanza non ha determinato alcun errore di fatto revocatorio in quanto sulla stessa la sentenza revocanda si è espressamente pronunciata al par. 11.4.10, ove, come riportato, ha rappresentato che “il p.i.p. è stato approvato solo con il decreto sindacale del 30 settembre 1987, di talché anche la concessione per l’innanzi rilasciata (quella del 1982) risulta priva della necessaria conformità urbanistica secondo la destinazione commerciale, all’epoca non ancora attuale”.

Le considerazioni svolte dai revocanti, quindi, mirano a contestare una valutazione di diritto nell’interpretazione del decreto, il che, come detto, non può essere ammesso in questa sede, in quanto, in tal modo, il giudizio revocatorio si trasformerebbe in un terzo grado di giudizio non previsto dal sistema.

4.2.2. Parimenti, non si risolvono nella deduzione di un errore di fatto revocatorio, ma di un errore di diritto, le questioni relative alla sussistenza o meno della durata decennale del piano di insediamenti produttivi.

In proposito, infatti, sono gli stessi ricorrenti a sostenere che:

– il certificato di destinazione urbanistica rilasciato dal Comune e versato in atti in cui risulta che ancora oggi l’area ricade in zona agricola E/2 non avrebbe alcun valore preminente o derogatorio rispetto alla legge ed agli effetti dalla stessa prodotti;

– se il Collegio avesse letto le dette circostanze emergenti dai documenti in atti e valutato correttamente il valore giuridico degli stessi, avrebbe senz’altro rilevato la sussistenza del requisito formale della destinazione urbanistica commerciale dell’area all’epoca della concessione edilizia per la realizzazione dei fabbricati;

– il Collegio ha ritenuto che il p.i.p. fosse stato adottato ai sensi dell’art. 27 della legge n. 865 del 1971 ed ha attribuito allo stesso una durata decennale, laddove, invece, sarebbe stato adottato e approvato ai sensi della legge speciale e derogatoria n. 219 del 1981 e, secondo la normativa di riferimento, non avrebbe alcun vincolo decennale;

– il limite dei dieci anni sarebbe previsto solo ed unicamente ai fini espropriativi, restando operanti senza limiti temporali le prescrizioni urbanistiche previste dal piano.

Si tratta, all’evidenza, di censure con cui le parti rilevano l’esistenza di errori di diritto, vale a dire l’erronea interpretazione e valutazione dei fatti o il mancato approfondimento di una circostanza ritenuta risolutiva ai fini della decisione, e non l’esistenza di un errore di fatto revocatorio.

D’altra parte, la durata del piano ha costituito un punto sul quale la sentenza revocanda ha pronunciato.

Infatti, nel par. 14.4.10, la sentenza, come già richiamato, ha statuito che “l’anzidetto piano, inoltre, è decaduto per mancata attuazione entro il termine del 30 settembre 1997, sicché anche i titoli edilizi successivamente rilasciati per ristrutturazione dei locali commerciali e realizzazione dei locali tecnici … risultano non conformi alla vigente destinazione urbanistica” ed ha richiamato, sulla durata decennale del p.i.p., la sentenza del Consiglio di Stato, V, 2 dicembre 2011, n. 6363.

4.2.3. I ricorrenti hanno evidenziato come, nella sentenza revocanda, si rileverebbe che l’immobile ricade in zona agricola semplice E/2 e, pertanto, a norma degli artt. 23 e 24 delle NTA allegate al p.d.f., le uniche destinazioni d’uso consentite sono la residenza e gli impianti occorrenti per la conduzione dei fondi agricoli, mentre il richiamato art. 24 delle NTA, al punto 4, prevede espressamente la possibilità di realizzare anche “costruzioni destinate all’industria e cave, indice di edificabilità fondiaria 0,15 mq/mq altezza massima 8,00 metri”.

La questione, al par. 11.4.7., è stata affrontata nella sentenza impugnata.

Inoltre, al par. 11.4.12, il provvedimento giurisdizionale ha rappresentato che “il Comune di Caiazzo ha, anzi, rilasciato svariati certificati urbanistici in cui si dichiara pacificamente che l’immobile per cui è causa ricade in zona classificata E2 Agricola semplice”.

Ad ogni buon conto, deve rilevarsi che la circostanza dedotta non costituisce un punto decisivo della controversia, in quanto la possibile destinazione di un’area ricadente in zona E2 agricola semplice ad industrie o cave, come correttamente evidenziato dalle controparti, non esclude che debba comunque sussistere una connessione con il mondo agricolo, laddove l’attività commerciale in questione non ha alcuna connessione con le attività previste dall’art. 2135 c.c. che possono essere esercitate dall’imprenditore agricolo.

4.2.4. I ricorrenti hanno ancora esposto che, nel 1983, la Autovolturno s.p.a. ha chiesto di spostare la propria attività commerciale dai locali di via Roma a quelli (nuovi) di via S.S. 158 e il Sindaco, in data 24 maggio 1983, ha autorizzato l’abitabilità e l’usabilità dello stabile in questione ove era espressamente prevista l’attività commerciale e di vendita al minuto, ma tale autorizzazione non sarebbe stata valutata dal Collegio giudicante ed avrebbe influenzato la decisione.

La questione, così come la precedente, non può ritenersi decisiva ai fini della soluzione della controversia, in quanto le statuizioni contenute nella sentenza revocanda affermano che i titoli concessori dell’epoca fossero privi della necessaria conformità urbanistica secondo la destinazione commerciale e danno conto del fatto che sono stati annullati, oltre all’autorizzazione commerciale, quali atti presupposti, le concessioni edilizie rilasciate in favore della Iper Volturno s.r.l.

In proposito, al par. 11.4.7 della sentenza, è indicato che “dai documenti versati agli atti del giudizio e, in particolare, dal certificato di destinazione urbanistica prot. n. 7910 del 5 luglio 2011, è provato che l’immobile per cui è causa, distinto in catasto al foglio 12, part. 136, sub 3 e realizzato in forza della concessione edilizia n. 2/9 del 23 agosto 1979 per “costruzione di officina e attività annesse per concessionari d’auto” e successiva concessione edilizia in variante n. 1/118 del 5 febbraio 1982, ricade (e ricadeva, anche all’epoca) in zona E2 (agricola semplice) del vigente programma di fabbricazione adottato in data 27 maggio 1974 con decreto n. 729 del Presidente della G.R.C. e successiva deliberazione di G.R. n. 9304 del 29 dicembre 1975”.

Ne consegue che il mancato approfondimento dell’autorizzazione rilasciata dal Sindaco in data 24 maggio 1983 non sembra costituire, nel complessivo impianto della pronuncia, un punto significativo e, comunque, per tutto quanto in precedenza esposto, configurerebbe eventualmente un errore di diritto e non un errore di fatto.

La sentenza revocanda, in definitiva, attraverso l’analisi degli artt. 23 e 24 delle NTA del piano di fabbricazione, ha ritenuto illegittima la possibilità di assentire in zona agricola la realizzazione di immobili aventi destinazione commerciale, atteso che, nel richiamato par. 11.4.7, ha specificato come “le uniche destinazioni d’uso consentite sono la residenza e gli impianti occorrenti per la conduzione dei fondi”. Di talché, le concessioni edilizie del 1979 e del 1982 non troverebbero alcun sostegno nella vocazione commerciale dello stabile.

  1. Il Collegio ritiene che non sussistono nemmeno i presupposti di cui all’art. 395, n. 3, c.p.c., secondo cui le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione “se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario”.

I ricorrenti, nell’evidenziare che la sentenza revocanda ha affermato come la Autovolturno s.p.a. sia beneficiaria di autorizzazione commerciale per i locali siti in via Roma, hanno sostenuto che tale circostanza sarebbe smentita dall’autorizzazione n. 162 del 23 gennaio 1981, che riporta un’addenda in cui vi è l’aggiornamento della licenza proprio in forza dello spostamento dell’attività commerciale presso i nuovi locali siti in SS 158; il documento sarebbe stato rinvenuto solo successivamente al deposito della sentenza presso gli archivi del Comune per cui, trattandosi di un documento decisivo, si concretizzerebbe l’ipotesi di cui all’art. 395, comma 3, c.p.c.;

Ora, se è vero che la sentenza revocanda ha affermato che “la società Autovolturno era sì beneficiaria di una autorizzazione al commercio di vendita al dettaglio di autovetture (autorizzazione n. 116 del 18.6.1975), ma in tutt’altro immobile (quello alla via Roma) rispetto a quello di cui alle sopramenzionate concessioni”, è altrettanto vero, anche a voler prescindere dal marginale rilievo della circostanza dedotta in ordine alla decisione della controversia, che non ricorre la condizione prevista dall’art. 395, comma 3, c.p.a., vale a dire che la parte non ha potuto produrre il documento in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario.

Infatti, gli stessi ricorrenti hanno posto in rilievo che tale documento è stato rinvenuto solo successivamente alla fine del giudizio negli archivi del Comune a seguito di richiesta di visionare tutti gli atti in possesso dell’Ente.

Va da sé, quindi, che, pur volendo ammettere che il documento sia stato rinvenuto dalla parte successivamente al giudizio, trattandosi di un documento di cui sarebbe stato possibile prendere visione attraverso una ordinaria richiesta di accesso agli atti comunali, non è possibile configurare né la causa di forza maggiore né l’imputabilità dell’omessa conoscenza a fatto dell’avversario.

  1. I ricorrenti in revocazione, infine, hanno rappresentato che, nelle more del processo d’appello, in data 19 marzo 2013, la Golden Market s.r.l. è stata cancellata dal registro delle imprese e ciò rappresenterebbe ex se un evento interruttivo del giudizio; inoltre, la Golden Market s.r.l., in liquidazione, ha provveduto a vendere l’azienda a due distinte società che sono rimaste estranee al giudizio, sicché sarebbe sopravvenuta una carenza di interesse al ricorso con conseguente improcedibilità dello stesso.

In proposito, è sufficiente precisare che le circostanze dedotte non sono idonee a fondare alcun errore revocatorio.

  1. In definitiva, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili.
  2. Le spese del giudizio, liquidate complessive in euro 3.000,00 (tremila/00), oltre accessori di legge, per ciascun ricorso, seguono la soccombenza e sono poste, a carico di ciascun ricorrente ed a favore, in parti uguali, dei signori Concetta Parisi ed Antonino Iacoessa; le spese del giudizio, invece, possono essere compensate nei confronti degli interventori ad adiuvandumnel ricorso R.G. n. 2257 del 2018.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, definitivamente pronunciando, previa riunione dei relativi giudizi, dichiara inammissibili i ricorsi per revocazione in epigrafe (R.G. n. 5340 del 2018 e 2257 del 2018).

Condanna, con riferimento ad ognuno dei due ricorsi, ciascun ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate complessive in euro 3.000,00 (tremila/00), oltre accessori di legge, a favore, in parti uguali, dei signori Concetta Parisi ed Antonino Iacoessa; compensa le spese del giudizio nei confronti degli interventori ad adiuvandum nel ricorso R.G. n. 2257 del 2018. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.  Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 marzo 2019 con l’intervento dei magistrati:

 

Guarda anche

TEANO – Appalti e corruzione nella sanità, Bove resta ai domiciliari

TEANO – Non cambia la misura cautelare imposta all’imprenditore teanese. Anche dopo l’interrogatorio di garanzia …